Don Luigi Ricchiardi, classe 1932, salesiano torinese, è stato parroco a Maria Ausiliatrice dal novembre 1968 al settembre 1975. Inviato missionario nelle opere salesiane in Ecuador là è stato Vicario ispettoriale per 6 anni, responsabile nazionale della catechesi e insegnante di Teologia. Dopo l’esperienza di parroco nelle periferie di Quito, Guayaquil e Cuenca, per otto anni ha vissuto tra gli indigeni delle Ande a 3600 metri. Da un anno è rettore del Santuario mariano salesiano del Guayco intitolato a Mama Naty (la Madonna della Natività nella lingua locale) nella Provincia del Bolivar, nell’Ecuardor centrale. Lo abbiamo raggiunto ad agosto nei giorni in cui la famiglia salesiana di tutto il mondo celebrava la conclusione del Bicentenario di don Bosco.
Don Luigi, lei è stato a lungo amatissimo parroco a Maria Ausiliatrice nel cuore della Casa madre dei Salesiani. Ancora oggi tanti parrocchiani la ricordano con affetto e riconoscenza. Perchè ha scelto di andare missionario in Ecuador e cosa significa essere salesiani lontani da Valdocco?
Ringrazio La Voce del Popolo per darmi l’opportunità di rileggere, quarant’anni dopo, momenti che hanno segnato la mia vita. Capisco adesso, più di prima, che Dio è, come dice papa Francesco, il Dio delle sorprese. Nel 1968 inaspettatamente l’Ispettore mi fa la proposta di andare ad accompagnare per tre mesi un gruppo di ragazzi e ragazze volontarie, nel Mato Grosso, in Brasile. Nel periodo trascorso in quella missione, sentii che il Signore mi chiamava a offrirmi per essere missionario per tutta la vita, non solo per tre mesi! Le cose si complicano, quando, ritornando a Torino, il Rettor Maggiore di allora, don Luigi Ricceri, mi chiede di fare il parroco di Maria Ausiliatrice. Proprio non me l’aspettavo! Don Ricceri mi disse: «Gigi, abbiamo terminato il Concilio Vaticano II: bisogna cambiare. Se metto un confratello anziano non cambia niente, metto te e tu vedrai ciò che puoi fare…».
Cosa significava in quegli anni essere nominato parroco a Maria Ausiliatrice, nel cuore della famiglia salesiana…?
Ho iniziato la mia «avventura» di parroco a Maria Ausiliatrice, da una parte con l’ansia missionaria e, dall’altra, con il sogno e il timore di realizzare poco a poco le proposte rinnovatrici del Concilio.
E come è andata?
Ho incontrato l’appoggio incondizionato dei superiori, dei confratelli che mi hanno accompagnato e della maggior parte della gente, specialmente dei giovani e dei poveri. Ho cercato di essere un pastore «con l’odore delle pecore» come dice oggi papa Francesco. Più vicino possibile alla gente (in modo speciale agli immigrati del Sud Italia e dalla Sardegna), mi sono appoggiato molto all’oratorio e alla collaborazione delle Figlie di Maria Ausiliatrice. La lettera pastorale del card. Pellegrino, «Camminare insieme», mi aiutò moltissimo. Cercavamo di programmare le diverse attività insieme al Consiglio pastorale, preparavamo insieme ai laici la predica della domenica cercando di dare alle celebrazioni liturgiche un tono di incarnazione nella vita personale e sociale. La presenza nel Comitato di quartiere mi ha interrogato e mi ha aiutato a crescere come persona e come sacerdote religioso.
E poi cosa è successo?
L’idea di partire per le missioni non mi aveva mai abbandonato, anzi era uno stimolo a vivere con coraggio la mia responsabilità pastorale. Nell’estate del 1975, a cento anni della prima spedizione missionaria di don Bosco, don Ricceri mi dà il «semaforo verde» per partire per l’Ecuador. Un momento di gioia perché vedevo realizzato il mio sogno missionario ma anche di sofferenza per dover lasciare tante persone e tante iniziative che avevano riempito la mia vita per sette anni, nonostante i miei errori e le mie mancanze. Cercai di far sentire alla gente della parrocchia che erano loro che mi mandavano in missione: «Con don Gigi la parrocchia di Maria Ausiliatrice si faceva missionaria!».
Quella destinazione non è stata una scelta mia: l’ho accettata con gioia anche se non conoscevo nulla di questa realtà. Ma ero cosciente che era il Signore che mi chiamava a vivere la mia vocazione salesiana e sacerdotale in un nuovo contesto e ho cercato sin dall’inizio di incarnarmi totalmente nel nuovo mondo, specialmente nei piú poveri e nei giovani. Mi sono sentito felice e realizzato come sacerdote e come salesiano nella missione con la gente delle campagne, nei sobborghi di Quito, Guayaquil e Cuenca, fra gli indigeni delle Ande, con i ragazzi di strada, con i giovani che si preparavano alla vita salesiana e sacerdotale… Da un anno vivo nel Santuario della Madonna, che gli indigeni chiamano «Mama Naty». Ho sentito sempre la responsabilità di fare presente almeno un poco di don Bosco, visto che mi aveva voluto per sette anni a suo fianco a Valdocco… Farlo presente con la vicinanza alla gente, con un tratto affettuoso e spontaneo, con un ottimismo sognatore… C’é qui tanta gente, specialmente giovani, che mi chiamano non solo «papá», ma anche «nonno»… visti i miei 82 anni compiuti!
Nell’Occidente secolarizzato i giovani sono alla ricerca di senso, di una spiritualità che è stata sommersa dal benessere anche se la crisi economica ha messo in discussione le nostre sicurezze. Quali sono le caratteristiche della gioventù che ha incontrato in Ecuador e quali sono le loro speranze e le loro difficoltà?
In Ecuador non si può parlare di giovani in generale perché le realtà sono molto diverse: ci sono i giovani che vivono nelle grandi città, nelle campagne, i giovani indigeni sulle Ande o nella selva dell’Amazzonia. Parecchi di loro hanno vissuto o stanno vivendo l’ esperienza dell’emigrazione, con tutto ciò che ne consegue. Ma ciò che hanno in comune è il sogno di poter contribuire a cambiare il loro Paese. Molte cose sono cambiate in questi ultimi anni, ma la strada è ancora lunga. Molti giovani forse pensano che, per cambiare bisogna inseguire la cultura occidentale, altri (purtroppo ancora pochi) vedono nella loro cultura (indigena o meticcia) un modello da offrire al mondo che cerca strade nuove per una convivenza più umana.
Purtroppo anche da noi non manca il rischio della droga, della violenza, dell’edonismo… É forte per molti la tentazione della vita facile e comoda, della ricerca del benessere personale, del vivere come i ricchi…
Con occhi salesiani, credo di veder in loro la speranza e la possibilità di lottare per il mondo nuovo che vuole Dio, anche se esternamente non sempre la manifestano. L’ educazione e la nostra proposta del Vangelo possono e debbono aiutare a farli crescere in questa prospettiva.
Il Rettor Maggiore, don Angel Artime, in occasione del Bicentenario, ha visitato la vostra opera a Quito: come avete trascorso questo anno di festeggiamenti in onore di don Bosco e come è vissuto il carisma del santo dei giovani nelle vostre opere?
La visita di don Angel ci ha riempito di gioia in quest’anno di celebrazioni speciali: nel poco tempo che si è fermato fra noi ci ha fatto sentire viva la presenza di don Bosco, con la sua vicinanza paterna e la sua bontà, specialmente con i salesiani ed i giovani, con la sua ottica di ottimismo e di speranza, con la sua convinzione che l’opzione salesiana è per i giovani, specialmente i più poveri. Abbiamo celebrato quest’anno bicentenario accompagnando la reliquia di don Bosco per tutto il Paese, dalle altezze andine alle foreste amazzoniche, dalle coste del Pacifico alle grandi città. Don Bosco ha seminato speranza nel nostro Paese, specialmente per i giovani.
Poche settimane dopo la visita a Torino e a Valdocco, il 21 giugno scorso, papa Francesco è partito per l’America Latina visitando anche l’Ecuador e le vostre opere: come avete vissuto l’incontro con il Papa che è molto riconoscente al mondo salesiano e cosa vi è rimasto di quelle giornate?
Dopo la visita del Rettore Maggiore, quella di papa Francesco, attesa e preparata con speranza ed entusiasmo, é stata una grazia eccezionale del Signore. Ci ha aiutato a renderci conto di essere un Paese privilegiato che, per la sua consacrazione al Cuore di Gesù e al Cuore Immacolato di Maria, può e deve mettersi in cammino per superare i problemi e guardare con fiducia il futuro. Le sue parole ci hanno interrogato seriamente, ma soprattutto ci ha interpellato la sua allegria contagiosa, il suo modo di guardare alla vita, di avvicinarsi alla gente, di presentare un Gesù incarnato con amore nella storia di ognuno e del nostro Paese.
La sua visita credo che ci dovrà impegnare, a livello di Chiesa, a essere più vicini alla gente, specialmente ai poveri, e ad essere una Chiesa più povera; a livello politico, a cercare le strade per risolvere i conflitti sociali non con lo scontro e la violenza, ma con il dialogo sincero e rispettoso; a livello globale, a preoccuparci per difendere le ricchezza naturale del nostro Paese, nello spirito dell’enciclica «Laudato sì».
Le celebrazioni del bicentenario si sono concluse: quali sono le sfide dei salesiani dell’Ecuador a partire dalla memoria di don Bosco?
L’ultima benedizione di don Bosco, sul letto di morte, é stata per l’Ecuador. È una benedizione che ci fa sentire la responsabilità di fare presente nella vita quotidiana di coloro che formiamo che sono parte della famiglia salesiana, e nelle nostre scelte concrete in questi momenti non facili per il nostro Paese. La sfida non è soltanto di stare dalla parte dei poveri e dei giovani, ma anche e soprattutto di credere in loro, di credere che solo con loro e a partire da loro è possibile progettare e realizzare un Ecuador diverso come Dio lo vuole. É questo il senso della proposta del Rettor Maggiore: «Come don Bosco, con i giovani e per i giovani», ed io aggiungerei «con i poveri e per i poveri».
a cura di Marina LOMUNNO
da “La Voce del Popolo”